LA CURA DEL GUARDARE DI FRANCO ARMINIO. GUARDIAMO CON NUOVO SPIRITO LUCOLI

La cura del guardare

(dal blog di franco arminio e dei paesologi)

Foto R. Soldati
Penso al guardare come una cosa da fare ogni giorno, anche sotto casa. Non c’è bisogno di un altrove per attivare la voglia di vedere. L’Italia è La Mecca dello sguardo. La sua forza è la sua disunità. Convivono in pochissimo spazio tanti luoghi assai diversi tra loro. Una città come Palermo basta cambiare strada e ti cambia sotto gli occhi. Questo è il tempo dei luoghi. Conta lo spazio più che il tempo. Non si sa se è finita la storia, di certo non è finita la geografia. Strabone nel suo antico Grand Tour ci ricorda “L’utilità della geografia, intendo dire, presuppone che il geografo sia egli stesso un filosofo, un uomo che impegna se stesso nella ricerca dell’arte di vivere, o detto in altro modo, della felicità.” Quando pensiamo alla geografia, pensiamo all’aperto: monti, fiumi, pianure. E invece oggi la geografia è un riparo, un luogo in cui proteggersi dall’evanescenza digitale. La geografia al posto della psicologia, la percezione al posto dell’opinione. Andate in giro dove non va nessuno, turisti della clemenza, viaggiatori che non cercano solo la bellezza, l’armonia, la solarità, ma i posti più sperduti e affranti, i posti che aspettano qualcuno che li guardi, li riconosca, prima che diventino luoghi senza storia e senza geografia.
Foto R. Soldati
Con gli occhi di Leopardi e Pasolini Si potrebbe pensare che l’immiserimento della natura abbia riflessi anche sull’immiserimento della lingua. Oggi le immagini, le parole, i ritmi non sono più suggeriti dalla Natura, ma dalla Rete. E così abbiamo una lingua e una politica che sa di chiuso. Bello sfuggire alla tentazione dello sguardo apocalittico sull’Italia di oggi. Bello cercare i luoghi che non sono stati riempiti, i luoghi che non interessavano a nessuno, quelli poveri, impervi, fuori mano. In questi luoghi l’Italia si dà ancora. E allora ti puoi stupire guardando il muso delle vacche nel bosco di Accettura, guardando un vecchio in un orto del Salento o un contadino che ara in un pomeriggio sardo. Il viaggio in Italia va fatto senza ansie di compiacimento o di denuncia. Andare in giro, guardare come cambiano città e paesi, Torino oggi è molto diversa da come era negli anni settanta, l’Aquila è una città doppia: la città dei monumenti e quella delle rovine. E doppia è anche Taranto, città di mare circondata dalla città dell’acciaio. Nel guardare l’Italia tenere insieme l’occhio di Leopardi e quello di Pasolini, il Pasolini che teneva insieme Casarsa e Caravaggio, quello che scrisse nel 1959 La lunga strada di sabbia, un viaggio costiero da Ventimiglia a Trieste, un atto di amore verso un’Italia dalle cento province non ancora devastata dal “genocidio culturale” che ha prodotto il paesaggio italiano che attraversiamo adesso.
Concedetevi una vacanza intorno a un filo d’erba,  concedetevi al silenzio e alla luce, alla muta lussuria di una rosa.
Foto R. Soldati

A dispetto degli scellerati decenni passati, dove l’Italia sembrava aver voltato le spalle alle corriere dell’arcaico, al Dio dei tratturi e dell’uvaspina, la campagna c’è ancora. Le nostre erbe, il miele, l’aria, il silenzio, le ceramiche, l’uncinetto: ogni cosa va accudita di queste nostre terre.

Foto R. Soldati
La sagoma di una tegola, il ritornello di una canzone, un nomignolo, una bevuta nei campi, l’inflessione di una voce, un sorriso, rughe e pianti, il grano falciato, l’uva sui tralci, sono cose che deperiscono prima di altre in un tempo in cui il grande abbaglio del progredire ha velocemente scollato quel mastice di confidenze e solidali sicurezze della vista e del sentire che già seppe rendere abitabili le campagne italiane. Capolavori a oltranza La bellezza dell’Italia è la bellezza delle sue piazze storiche. Ce ne sono migliaia, una diversa dall’altra, piccole e grandi, simili a un braccio, a una nuvola, a un imbuto, a una ciambella di pane. Medioevo e Rinascimento, e poi il Barocco e il Settecento: Siena e Volterra, Milano e Fabriano, Roma, Napoli, Pienza e tantissime altre, fino al capolavoro delle Piazze di Padova, una dopo l’altra, un’incredibile sequenza di bellezza ravvicinata in una città vicina al miracolo di Venezia e vicina a Treviso, a Vicenza, a Mantova. In altre parti del mondo ci sono città straordinarie, ma sono atti unici. In Italia i capolavori si danno a oltranza, si addensano in piccole galassie: pensate al triangolo Perugia, Arezzo, Urbino o alla sequenza di città magnifiche da Bologna a Parma. E poi ci sono i luoghi che hanno il vigore delle cose che hanno parlato poco, delle cose trascurate o malviste. Matera e un po’ tutta la Lucania sono l’emblema di questa Italia in cui l’Italia sembra anche altro: basti pensare ai castelli di Melfi e Lagopesole, a Venosa e alle Dolomiti lucane, al Pollino, alle rovine di Craco e ai calanchi di Aliano.
Roma è un grande corpo in dialisi, un sangue che si è fatto scialbo. La città non è più in grado di accogliere, di mescolare. I turisti vagano, gli indigeni pure, a ciascuno il suo percorso prestampato tra monumenti, ristoranti e uffici. Tutto questo non fa anima. Forse le rovine del grande impero non emanano più il fascino che emanavano ai tempi di Goethe. Una decadenza che non rilascia lirismo, che non si porta dietro nemmeno una striatura di sacro. Roma andrebbe aiutata. Deve ritrovare la capacità di filtrare la miseria spirituale che la circonda come una volta la circondava la natura. Ogni grande capitale dell’occidente ha glorie e miserie che subito saltano all’occhio. Forse oggi Goethe vedrebbe Roma corrosa dall’acido di un’umanità senza batticuore. Forse tutta l’Italia gli apparirebbe come la patria della scontentezza e del disincanto. Gli italiani guardano ai problemi dei luoghi in cui vivono più che alla solenne bellezza ancora diffusa quasi ovunque. Bisogna passare dagli sguardi scoraggiati agli sguardi incantati. Forse per questo sarebbe assai utile leggere il viaggio in Italia di Goethe, la sua pacata disposizione alla meraviglia.
Oggi la bellezza dei luoghi è diventata un farmaco per alleviare i dolori che ci vengono dai rapporti equivoci e dolenti con le persone.
Foto R. Soldati
Bisogna andare in giro per congedarsi dall’infiammazione della residenza, dalle muffe e dal sudore freddo che ci incollano addosso le abitudini, bisogna andare in giro perché i luoghi hanno ancora un’innocenza che le persone non hanno più. Oggi forse nessuno può concedersi il lusso di un Grand Tour, ma ogni giorno un Petit Tour possiamo concedercelo, magari nei dintorni. Invece di andare in farmacia o dall’analista, possiamo uscire e guardare. Esiste un voyeurismo buono, quello del paesaggio. Spiare come stanno, dove stanno le cose: quel cancello, quel vaso di gerani, il vecchio sulla panchina, la macchina parcheggiata, la ragazza col telefonino, la cattedrale e l’albero solitario. È la meraviglia del mondo esterno, e noi siamo animali che abbiamo bisogno d’aria per vivere, dovremmo ogni volta che è possibile fare solo due cose, camminare e guardare. C’è una clamorosa infermità che ci accomuna, è la schiavitù di noi stessi. Siamo diventati schiavi dei nostri affari e non conta che siano loschi o degnissimi. Siamo avvinti all’idea del ricavo e ci istighiamo a tutta una serie di obblighi che fanno parte della nostra vita attiva, obblighi da cui ci aspettiamo ricompense, profitti, un salario monetario o morale. La via per uscire da questa schiavitù di ricavare continuamente qualcosa da noi stessi è quella di osservare le cose che stanno sotto il cielo. Portare il mondo esterno dentro di noi è stata l’operazione che ha fatto nascere la lingua. Dal corpo alla metafora. Viene in mente la formula di Gian Battista Vico: il vivente sensibile che si trasforma in vivente linguistico. Sul grande storico partenopeo Goethe scrisse: “È molto bello per un popolo possedere un tal patriarca”. Tra quelli che provano a cambiarla l’Italia, sempre meno per la verità, e quelli che fanno di tutto per conservarla, c’è una terza possibilità: il partito dello sguardo. Uno sguardo onnivoro, che raccoglie quello che era bello un tempo e quello che ci sembra bello adesso.
Foto R. Soldati
L’Italia del Grand Tour c’è ancora e vale la pena di visitarla, ma è venuta fuori un’altra Italia. Ai tempi di Goethe nessuno sapeva niente di Matera, Lecce, Cosenza. Oggi un paesaggio senza capannoni e officine e pompe di benzina ci sembra solenne, lirico. Ai tempi di Goethe tutta l’Italia era così. La pianura padana non era quello che è adesso, una grande azienda che include al suo interno paesi e città. Certamente Goethe farebbe ancora un salto nel Veneto, ma si stupirebbe non poco di trovare villette e capannoni ovunque. E a Firenze forse resterebbe ancora meno delle tre ore dedicate a suo tempo. Forse sarebbe affascinato da L’Aquila e da Taranto, per la loro bellezza coniugata allo sfacelo del terremoto e della fabbrica. Difficile capire l’effetto che oggi farebbe Napoli. A parte l’incredibile assedio alle falde del Vesuvio, Napoli è una delle poche città non globalizzate dell’Occidente Se l’Italia di oggi si caratterizza per l’adiacenza di fregio e sfregio, se gloriosa antichità e modernità incivile si contendono ogni spazio, Napoli è l’apoteosi di tutto questo. Se in Italia ci fosse un piano regolatore del silenzio avremmo sicuramente più turisti stranieri. E se Goethe volesse sfuggire al rumore delle città italiane dovrebbe rifugiarsi sui monti delle Alpi e dell’Appennino. Allora potremmo consigliargli un paese come Trevico dove la densità di silenzio è altissima, ma è un silenzio che fa bene solo a chi lo vive ogni tanto. Se non hai voglia di fare la fila per vedere la Cappella Sistina, se il tuo bar vicino alla campagna è più al centro di piazza di Spagna, trovati uno scalino, riposati con la faccia al sole.
Foto R. Soldati
Guarda con dolcezza chi è fermo, chi cammina. Se c’è qualcuno che parla ascoltalo, per tornare a casa aspetta che sia sera, usa il buio come un buio come un fiocco per chiudere la giornata e fanne dono a chi ti vuole bene.
Lucoli una vecchia cartolina d’epoca

I “FRUTTI DIMENTICATI” DEL GIARDINO DELLA MEMORIA: UN PANNELLO INCORNICIATO IN FERRO BATTUTO PER SPIEGARNE IL SENSO

I frutti “dimenticati” del Giardino della memoria – il melo “zitella”

Una mela non ha mai chiesto a nessuno di scrivere la storia della sua esistenza. 

Per quelle del Giardino della Memoria ci piacerebbe farlo, molte piante vengono da poderi abbandonati e questi frutti non si trovano più nei mercati hanno una lunga storia.

Se non ci fosse stato Ovidio a darci una mano nel conoscere tante specie botaniche e da frutto forse gente come noi non si sarebbe preoccupata di realizzare un progetto piantando degli alberi che appartengono agli antichi pomari in via di estinzione, quelli brutti ma buoni.

Ovidio, battezzato anche Nasone, era un abruzzese che nacque a Sulmona il 20 marzo dell’anno 49 prima di Cristo. I genitori l’avrebbero voluto avvocato ma lui fece lo scrittore e il filosofo e duemila anni dopo, il fascino del suo sentire è aumentato. Ci ha ispirato il suo spirito protezionistico in difesa del verde e del paesaggio, dell’ambiente, dei beni della terra, ma anche dell’anima umana. 

E’ anche per questi valori che è nato a Lucoli un progetto che abbiamo dedicato alla memoria delle vittime del terremoto.

Ne abbiamo già scritto, ma pochi dei visitatori del Giardino della Memoria conoscono lo spirito di questo “monumento verde” e la ricchezza di piante in esso contenuta e così abbiamo realizzato un messaggio ad hoc da porre all’interno del Giardino.

Il testo scritto dalla nostra socia ricercatrice in materia di biodiversità: Beti Piotto, le maioliche realizzate dal maestro di Padova Quagliato, che ci sostiene da sempre, ma la struttura in ferro ci è stata donata da “ju ferraru delle Pagliare di Sassa”: Giuseppe Aliucci.

Il pannello ideato per il sesto anniversario del sisma che illustra il progetto botanico del Giardino della Memoria

Un lavoro lungo e di precisione che ha richiesto diversi sopralluoghi.

La struttura in ferro per contenere il pannello ceramico ideata dal Fabbro
“ju ferraru” Giuseppe Aliucci

Quello del fabbro è uno dei mestieri più considerati e apprezzati dalla gente comune sia per la sua incommensurabile utilità sia per le grandi capacità e i grossi sforzi fisici di cui ha sempre dato prova, per cui nessuno più di lui, a nostro parere, merita l’appellativo di “mastro”. 

Lo chiamavano nel Regno delle due Sicilie “forgiaru”, proprio per dare l’idea del vero artista che “forgia”, modella, plasma, manipola un materiale alquanto difficile quale è il ferro, riuscendo, nel contempo, a creare vere e proprie opere d’arte. Lo stesso termine “fabbro” deriva dal latino “faber” che significa abile, quindi, uomo capace di prendere un pezzo di ferro e di trasformarlo nella figura o nella forma che più desidera.

Nel 1954 l’emissione della moneta da 50 lire con la riproduzione, sul lato frontale, dell’effigie del fabbro (“Vulcano”) nell’atto di battere il martello sull’incudine, lo ha elevato, di fatto, a simbolo dell’Italia che lavora e che produce.

Peppe Aliucci, lavora a Pagliare di Sassa e ci ha aiutati: questo per noi non ha prezzo. 

Siamo dei volontari con tanta buona volontà ma con pochi mezzi, tanto abbiamo fatto con le nostre sole forze, ma senza l’aiuto di persone come Peppe, che credono in noi e nel nostro progetto, non potremmo andare avanti. 

Lui ci ha fatto sentire nel giusto.

Se si sogna da soli è solo un sogno, se si sogna insieme è la realtà che comincia.

Grazie Peppe!

Peppe Aliucci nella sua officina a Pagliare di Sassa (foto di Fabrizio Soldati)

La Basilica di Santa Maria del Colle incontro 26 gennaio 2016

SantaMariaDelColle1 SantaMariaDelCollepresentazionelibro

I nostri soci di NoiXLucoli sono invitati all’evento di presentazione del libro “La Basilica di SANTA MARIA del COLLE” a Pescocostanzo, il gentile invito ci è esteso dall’Associazione Abruzzese di Roma.

Un prezioso volume che raccoglie i contributi di importanti studiosi ed è corredato di un ricco apparato di immagini, frutto di una lunga e attenta campagna fotografica realizzata da Luciano D’Angelo e Mauro Vitale.
soffitto della navata centrale

Il volume è stato curato da Anna Colangelo, alla quale si devono anche gli studi sulla pittura presente nella Basilica.

A sostenerla è stata l’intera Comunità pescolana, nella persona di Pasquale Del Cimmuto, sindaco che, nel volume, esprime la consapevolezza del patrimonio culturale che gli è affidato e dei valori municipali che ad esso attengono in una emozionata pagina che ricorda, tra l’altro, la figura e l’impegno di “Don Angelo di Janni, custode appassionato, dura eppur gentile presenza, vero nume tutelare della Basilica, pronto a far sacrificio di tutto l’immaginabile per la chiesa, al suo tempo mai troppo sua (come oggi mai troppo nostra)”. La presentazione di Monsignor Angelo Spina Vescovo di Sulmona-Valva che invita a riflettere sui rapporti tra Arte e Religione, e l’introduzione di Lucia Arbace, Direttore Polo Museale dell’Abruzzo, che traccia un quadro culturale della Città, danno avvio ai contributi degli studiosi che nel libro conducono il lettore in uno straordinario viaggio all’interno della Basilica. Questi i contributi:  Francesco Sabatini (Pescocostanzo: arte, economia e società. Passato e presente), Anna Colangelo (La Pittura), Adriano Ghisetti Giavarina (La collegiata Santa Maria del Colle. Le fasi costruttive), Marta Vittorini (La Madonna del Colle) che analizza insieme agli aspetti artistici anche le forme del secolare culto verso la preziosa effige, Floriana Conte (La Madonna di Costantinopoli di Tanzio da Varallo) che ricostruisce l’esegesi, la committenza e le varie collocazioni del dipinto, Vittorio Casale (Fervore d’invenzioni e varietà di tecniche artistiche a Pescocostanzo nei secoli XVII-XVIII) che, infine, evidenzia gli esiti raggiunti dalle cosiddette arti applicate che trovarono a Pescocostanzo scuola ed interpreti di prim’ordine.
Chiude il bellissimo volume l’ampia bibliografia curata da Marta Vittorini.

particolare altare

All’incontro del 26 gennaio p.v. INTERVERRANNO:

Giovanni Sabatini Direttore generale Associazione Bancaria Italiana

Gaetano Basti Direttore editoriale Menabò

Lucia Arbace Direttore Polo Museale dell’Abruzzo

Anna Colangelo Funzionario storico dell’arte Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio

Luciano D’Angelo Fotogrscafo

Roberto Sciullo Sindaco di Peocostanzo

Pasquale del Cimmuto già Sindaco di Pescocostanzo

Angelo Spina Vescovo di Sulmona Valva

Francesco Sabatini Presidente Emerito dell’Accademia della Crusca

Giovanni Legnini Vice Presidente CSM

Modera: Chiara Giallonardo conduttrice Linea Verde

La Basilica di Pescocostanzo

http://www.dabruzzo.it/59-notizie/201-la-basilica-di-santa-maria-del-colle-a-Pescocostanzo

https://it.wikipedia.org/wiki/Basilica_di_Santa_Maria_del_Colle

LE FOTO DELL’EVENTO

I relatori dell’incontro
La sala della Clemenza di Palazzo Altieri era gremita di partecipanti

 

Il consigliere comunale di Pescocostanzo Monica Le Donne parla in rappresentanza del Comune

In Abruzzo non si abbattono lupi

«In Abruzzo non si abbattono lupi». Parola di assessore…….

 
amy hamilton. http://blog.freepeople.com/2012/12

Entro marzo 2016 la Conferenza stato-regioni deve esprimersi sul Piano di conservazione e gestione del lupo in Italia, che prevede la possibilità di abbatterne fino al 5 per cento all’anno, commissionato da Minambiente ai sapienti della Sapienza di Roma e dell’Unione zoologica italiana.

Ma la rimozione fino al 5 per cento della popolazione italiana di lupo potrebbe risolvere il problema di convivenza? Anche in questo caso, non v’è tema di errore nel dichiarare “no”. Pecore imprudentemente incustodite saranno sempre preferite, dal lupo, all’agguerrito cinghiale e al velocissimo capriolo; cani, bambini e donne, in situazioni  incaute, non potranno essere mai totalmente al sicuro.

ABRUZZO. «In Abruzzo non esistono le condizioni per un abbattimento selettivo dei lupi».

Lo afferma l’assessore alle Politiche agricole, Dino Pepe, in merito ai contenuti del “Piano di azione del lupo” del ministero dell’Ambiente che prevede, se ricorrono determinate condizioni, la possibilità di deroghe all’abbattimento su autorizzazione del lupo.

«Attualmente – precisa l’assessore alle Politiche agricole – in Abruzzo la popolazione stimata dei lupi ammonta a 350 esemplari, di cui i 2/3 gravita nelle aree dei parchi nei quali non è ammessa alcuna deroga. È importante però sottolineare che la Regione Abruzzo si è posta il problema degli indennizzi da corrispondere agli imprenditori agricoli per danni causati da lupi e cinghiali incrementando la relativa voce di bilancio a 750 mila euro. È una delle poche partite di bilancio che ha fatto registrare un incremento in entrata a conferma dell’attualità del problema e della necessità della Giunta di venire incontro agli agricoltori, ma allo stato non è possibile prevedere un abbattimento selettivo del lupo».

 Il tema dei danni e dei relativi indennizzi «è previsto anche nel Piano di sviluppo regionale con azioni specifiche e come strumento aggiuntivo a situazioni emergenziali».

A livello nazionale, invece, il Piano dovrà essere approvato in via definitiva in sede di Conferenza Stato-Regioni ed «è opportuno che in quella sede – conclude l’assessore Pepe – le Regioni esprimano le proprie problematiche su scala regionale sia di conservazione della specie sia di mitigazione dei conflitti tra la presenza del lupo e alcune attività antropiche».

Facciamo qualche considerazione con l’aiuto di Corradino Guacci autore del libro “Transumanza, Uomini e lupi nella Capitanata del XIX secolo”.

“I lupi, che facevano la posta a un gregge di pecore, non riuscivano ad impadronirsene a causa dei cani che lo sorvegliavano, e allora decisero di ricorrere all’astuzia per raggiungere il loro scopo…” Come fu per Esopo, i lupi sono ancora protagonisti di vicende che attirano l’attenzione. Paesaggio naturale, luoghi di transumanza, lupi, greggi, tratturi: ce ne parla il naturalista e storico molisano Corradino Guacci nella sua nuova pubblicazione edita da TEMI Editrice.

Guacci si chiede quale validità possa avere un piano che, intendendo incidere su una popolazione animale, si basa su dati quantitativi approssimativi, tanto da essere contestati anche all’interno dello stesso mondo della ricerca?

Un recente articolo dello zoologo Bernardino Ragni (http://www.panorama.it/scienza/animali-natura/bestiario-contemporaneo/lupi-si-ma-in-modica-quantita/) ipotizza, addirittura, che la consistenza totale della stessa popolazione di lupi possa superare del 50% quella stimata.
Guacci si chiede come si possa pensare che una quota di abbattimento di 60 lupi (in media 3 a regione) possa risolvere, o quantomeno attenuare, i conflitti con gli allevatori.
Ancora, come si fa a decidere di dare il via ad abbattimenti di lupi se non si è prima provveduto a contenere seriamente la popolazione degli ibridi e dei cani “vaganti” che, come diceva qualcuno, quando si trovano in natura non mangiano “margherite”?

A questo punto si potrebbe obiettare che i cani sono tutelati dalla legge 281/1991, la legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo.

Gli ibridi, oltre ai cani, non possono essere “eliminati” ai sensi della legge Legge 20 luglio 2004, n.189 “Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate”.

Su tutti, infine, l’ombrello protettivo dell’art. 544-bis del Codice Penale che punisce l’uccisione di un animale, per crudeltà o senza necessità, con la reclusione da tre a diciotto mesi.

Guarda caso il lupo, con eccezione della 281 del 1991, è altrettanto coperto da tutte queste disposizioni e, in più, dalla legge 157/1992 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio” (artt. 2 e 30) e dalle norme comunitarie (Convenzione di Berna, Direttiva Habitat…) recepite dal nostro ordinamento.

Quindi, anche se certamente provocatoria come proposta, non sarebbe più “opportuno” contenere prima gli ibridi, poi i cani “vaganti” e, in ultima analisi, i lupi?

Infine, il piano non sembra prendere nella dovuta considerazione la bibliografia specifica esistente sull’argomento che sconsiglia, sulla base delle esperienze condotte in altri Paesi, di adottare la linea dell’abbattimento dei grandi carnivori per contrastare i danni agli allevamenti.  Come ad esempio i recenti lavori di Fernandez Gil et al. (2013, 2014 e 2016)  sui risultati dell’esperienza spagnola laddove la strategia dell’abbattimento selettivo dei grandi carnivori non sembra aver portato a una diminuzione dei danni, anzi…

E allora?

Se la motivazione di questo piano sta tutta nel cercare di limitare i danni apportati dal lupo agli allevamenti (specialmente in quelle zone di recente ricolonizzazione dove da un lato non c’è l’abitudine      ad adottare difese attive e passive – cani da guardiania e recinzioni elettrificate – e dall’altro non c’è la volontà di utilizzarle, essendo molto più comodo lasciare il bestiame incustodito), l’operazione così congegnata sembra avere, più che altro, la funzione di un assist alla politica che si trova a dover gestire le rimostranze degli allevatori.

Si ha, inoltre, la spiacevole sensazione che questo piano non risolverà il problema, anzi creerà un presupposto rischioso, quello dell’abbattimento legale del lupo che non solo non mitigherà il fenomeno del bracconaggio ma, al contrario, potrebbe incoraggiarlo.

Qualcuno che fino a ieri si era trattenuto per timore della sanzione, oggi potrebbe imbracciare il fucile o usare il veleno sulla base del semplicistico ragionamento “se lo fa lo Stato…”.

L’efficacia prevista è messa in dubbio anche da chi si occupa di queste questioni come lo stesso Corradino Ragni che, sempre nell’articolo citato, afferma: “Ma la rimozione fino al 5 per cento della popolazione italiana di lupo potrebbe risolvere il problema di convivenza? Anche in questo caso, non v’è tema di errore nel dichiarare “no” e conclude “Al di là delle percentuali, dei perché e dei modi, contenuti nel “Piano” sub judice, se tale provvedimento costituisce un primo, timoroso, certamente imperfetto, tentativo di sdoganare la risorsa naturale rinnovabile Canis lupus italicus dal ghetto dei tabù emozional-confessional-ideologici, che ben venga!”

E qui credo che, di fronte a un piano che solleva tanti dubbi e che potrebbe comportare ulteriori squilibri ambientali, forse dovremmo essere più cauti.

Così come giocare a rinfocolare l’atavica paura del lupo, scambiando improbabili cronache giornalistiche per testimonianze asseverate dell’aggressività del lupo, è pratica “ardita”.

Lo stesso incipit dell’articolo del professor Ragni può essere fuorviante qualora le citazioni di Ghigi e Altobello*, seppur correttamente contestualizzate, non vengano strettamente inquadrate nell’epoca in cui sono state asserite (1911-1924).

Sarebbe un po’ come voler sostenere oggi che il Sole gira intorno alla Terra, riesumando la teoria geocentrica di Tolomeo, elaborata nel II secolo d.C.

Dai tempi di Ghigi e Altobello sono nate e si sono sviluppate scienze moderne come l’ecologia e l’etologia che ci hanno fatto capire qual è, effettivamente, il ruolo dei predatori apicali come il lupo e l’orso e quale il loro posto negli ecosistemi.

Un’ultima  considerazione sull’articolo di Ragni: affermazioni del tipo “bambini e donne, in situazioni incaute, non potranno essere mai totalmente al sicuro” andrebbero evitate.

Infatti la stessa raccomandazione si potrebbe tranquillamente utilizzare con riferimento ai cani (60.000 morsicati ogni anno e, negli ultimi 30 anni, una media di 3-4 morti all’anno), attività venatoria (qui la media dei morti sale e di parecchio…), mucche, api, calabroni risparmiamo il resto…

*Gennaio 1911 “…non dovrà recar meraviglia se fra qualche anno … si sentirà parlare paurosamente di lupi affamati riuniti a frotte nel mezzogiorno d’Italia” (Alessandro Ghigi, insigne studioso di fauna italiana);
Giugno 1924 “… qualcuno non sa i danni che fa il lupo, non sa quali pericoli ci minaccia se lo lasciamo ancora libero di moltiplicarsi e di agire secondo i suoi noti brutali istinti di malvagità.
… ad evitare che esso continui liberamente a moltiplicarsi, insistentemente a distruggere il bestiame, impunemente ad attentare alla vita umana, mi sia lecito chiedere a S. E. il Ministro … che sia permessa l’uccisione del lupo…” (Giuseppe Altobello, insigne studioso di fauna appenninica, Campobasso).

Credits:

http://www.panorama.it/scienza/animali-natura/bestiario-contemporaneo/lupi-si-ma-in-modica-quantita/

https://www.academia.edu/5301088/Molise_terra_di_lupi

https://www.academia.edu/5249132/Lupi_e_lupari_del_Matese

Corradino Guacci, Presidente della Società Italiana per la Storia della Fauna “Giuseppe Altobello”.

Guacci ha presentato esposto alla Procura della Repubblica di Campobasso contro il servizio del programma le IENE “Quando il lupo diventa una minaccia”.

http://www.regione.abruzzo.it/portale/index.asp?modello=articolo&servizio=xList&stileDiv=mono&msv=articolo113567&tom=13567

prova1

testo ALT
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